Gavino Lorettu grande invalido di guerra

di Carmelo Murgia

All’eta di 87 anni Gavino Lorettu viene intervistato dalla figlia Lucia sui fatti più importanti della sua vita. Il dialogo tra padre e figlia risulta interessante anche perché le domande sono rivolte in algherese, ma le risposte sono date in lingua sarda.

La registrazione (in audiocassetta) inizia con la musica de su “Ballu e su dillaru” suonata con il piffero a 87 anni da Gavino Lorettu.

“Sono nato il 23 giugno 1892 e mia madre è morta quando io avevo sette anni. Mio padre, pastore, fece andare anche me a fare il pastore, lui mori che io avevo soli 8 anni. Feci sempre vita di campagna lavorando con “estranei”. Mio zio Salvatore Cossu era il mio curatore, non aveva moglie, e non aveva tempo di stare con me. Nella povera vita mia mi sono fatto grande cosi: un po’ a Villanova, un po a Padria, un po’ a Borutta, un po’ a Thiesi e a Ittiri, sempre girovagando da un posto all’altro.

Questa era la vita dell’orfano di babbo e di mamma. Tribolando sempre in casa “anzena”. Quando stavo a Thiesi mi scrisse una lettera mia sorella Pasquangela, comunicandomi che era morta una zia, la madre di Teresa, lasciandoci in eredità un terreno a Montresta. Tiu Moro, il babbo di mamma, aveva lasciato il terreno alle due figlie, …. Moro e a Maddalena Moro e noi come eredi dovevamo prenderne possesso.

Ad agosto del 1912 venni ad Alghero, all’età di 20 anni.

Sono stato a lavorare da tiu Martino Melone per molti mesi, poi ho lavorato in miniera con Pietro Paolo Masala e Antonio Giuseppe Fresi, il babbo di Caterina. Anche li lavorai per alcuni mesi, poi ce ne siamo andati.

Un giorno mentre stavamo appoggiati alla Torre di porta Terra, venne un certo Salaris Salvatore da Olmedo e ci chiese cosa stessimo facendo. “Stiamo cercando lavoro” gli rispondemmo. Allora ci chiese di andare con lui a lavorare ad Olmedo.

Ci incamminammo di notte per raggiungere Olmedo, appena arrivati Salaris ci accolse nella sua casa e ci offri da mangiare. Decidemmo come dividerci il lavoro: Antonio Giuseppe Fresi andò con Salaris, mentre Pietro Paolo Masala ed io con il pastore del Sindaco. Ci rimasi poco più di un anno poi ritornai ad Alghero per lavorare nel caseificio Boccei come casaro. Finita la stagione andai a lavorare con “Nenaldu Musciò” lo zio di Antonio “Muscid”. Vi rimasi circa un anno, ed in quel periodo conobbi Giovanna Maria Carta, vostra madre.

Ci siamo frequentati e ci hanno fatto sposare nel 18 giugno del 1914. Rimanemmo insieme solo tre mesi, sino al giorno delle Marie (8 settembre), perché in quel giorno partii soldato. Mia moglie allora andò a servizio a Sassari dai Zoagli. Avevo 22 anni”.

 

 

TESTIMONIANZA SULLA GRANDE GUERRA

Del Grande Invalido Gavino Lorettu Monteleone Roccadoria 23 giugno 1892 Alghero 20/05/1985

Notizie tratte dai suoi racconti registrati in audiocassetta nel 1979 all’eta di 87 anni.

L’8 settembre 1914, all’eta di 22 anni, dopo solo tre mesi di matrimonio, rispondendo alla chiamata di leva, partii per Napoli.

Arruolato al 31° reggimento di fanteria nella caserma dei Granili di Napoli, vi rimasi fino al mese di Dicembre dello stesso anno.

Successivamente fui trasferito nel reggimento di Barletta, fino al mese di Aprile.

La notte tra il 23 e il 24 maggio, I’Italia entro in guerra e Barletta fu bombardata. A maggio ci fu la spedizione per le grandi manovre e poi al fronte, L’Isonzo era il teatro di guerra: Monte Sei Busi, Sagrado, Monfalcone, Bosco detto Ferro di Cavallo, Doberdo, Redipuglia… Il 25 di Agosto del ’15, ci fu il primo assalto. 250 soldati andarono all’attacco, soltanto 25 si salvarono.

Si stava come prigionieri perché non si poteva andare ne avanti ne indietro. …Eravamo tra due fuochi. Allora decisi di radunare tutti i miei compagni per incoraggiarli a scappare, “prima parto io verso la nostra trincea, se vedete che non fanno fuoco, uno alla volta mi raggiungete nella stessa direzione.” …Arrivato in prossimita della trincea italiana mi feci riconoscere prima di saltarci dentro. Chiesi di sospendere il fuoco per permettere agli altri di raggiungere la trincea e salvarsi. In quel posto erano presenti I’attendente ed il capitano. Quando anche gli altri furono in salvo chiesi dove fossero i compagni del reggimento… “a Redipuglia” mi dissero. Avevano ripiegato e la trincea era gia occupata dai rincalzi. L’attendente ed il capitano ci chiesero cosa fosse accaduto ed i miei compagni raccontarono come io li avessi salvati.

Trascorsero sette-otto giorni e sentii chiamare “Lorettu Gavino, Lorettu Gavino, a rapporto dal capitano.”

“E itte malasorte ada a cherrede” (che cosa vorra?), non potevo immaginare che cosa volesse da me.

“Arrivo”. Mi chiese se fossi Gavino Lorettu: “per servirla signor capitano” risposi. “Bravo! mi racconti I’episodio dell’assalto.”

Non appena ebbi finito il racconto, mi disse che mi promuoveva caporale.

“Non posso accettare”, risposi, “come posso accettare se non so ne leggere e ne scrivere?” “Bugia” mi disse, “io ho visto la corrispondenza, le cartoline che inviate alla vostra famiglia e alla moglie.

Ho gia visto che sapete leggere e scrivere, quindi non potete rifiutare. Vi siete distinto in questa operazione e meritate una ricompensa”.

Io non volevo accettare, ma non c’era rimedio. Alla fine mi disse che se avessi rifiutato “i gradi” mi avrebbe dato 20 + 30 giorni di prigione per non aver obbedito, quindi non mi rimase che accettare”. Questo avvenne nel mese di agosto del 1915.

La vita di trincea era dura, un pò di trincea, un pò di riposo, sino al mese di dicembre del 1915 quando finalmente fui mandato in licenza premio invernale per quindici giorni. Partii il 22-23 dicembre da Villa Vicenzina.

La notte del 23 presi il “vapore”, il 24 arrivai a Golfo Aranci e la notte dormii a Chilivani dopo aver cenato con salsiccia e lardo.

Nessuno sapeva del mio arrivo, alle 10 del mattino del giorno di Natale arrivai ad Alghero con i miei gradi di caporale maggiore belli e luccicanti che mi furono dati nel mese di Santu Aine (ottobre).

Finita la licenza rientrai direttamente a Redipuglia. Mi presentai al capitano che mi domando come avessi trascorso la licenza, mi voleva molto bene, però mi diede subito una brutta notizia arrivata dal comando principale: “tutti i sardi che si trovano in qualsiasi reggimento, devono essere mandati al reggimento della Brigata Sassari”. Il comandante aveva comunque risposto che molti sardi erano e non erano lì presenti perché ancora in licenza.

Io decisi di non andare per rimanere con il Capitano che “mi cheriada unu bene maccu” (mi voleva un bene matto).

Subito mi mandarono in prima linea, sul Carso fino al 22 Maggio del 1916, tra licenze e trincea passavo le mie giornate.  La vita in trincea era molto dura, portavo sempre con me lo scapolare, non mi abbandonava mai, mi proteggeva dalle bombe che cadevano in trincea.

Siamo stati chiamati a portare rinforzi in Trentino, a Montefiore Asiago. Ci hanno preso per esaurimento delle forze… dodici giorni e dodici notti camminando con poche e brevi soste per dare man forte a chi stava ripiegando, gli austriaci erano quasi vicino a Vicenza, e toccava a noi, la Brigata Barletta insieme alla Brigata Sassari e tutta la terza armata, forze che erano sul Carso dirottate ora in Trentino. Otto giorni e otto notti sempre con la baionetta innestata. Sempre attenti. Sino alle 3 di quel pomeriggio del 20 Giugno 1916, giorno in cui sono stato ferito.

Stavamo avanzando per recuperare territorio, distesi per terra cercavamo riparo dalle pallottole nemiche, attorno a noi molti morti. Ad un certo punto ci fermammo perché avevamo fame; ho chiesto ad un compagno, Multino Francesco di Iglesias, di aprire una scatoletta e mangiare una pagnotta. Aveva paura di avvicinarsi, di lasciare quel riparo, sembrava sentisse ciò che stava per accadere. Lo incoraggiai a venire “basso, basso, scarpone scarpone”. Non appena mi raggiunse, “PAM”, una pallottola lo colpì… andai a prendere il pacchetto delle medicazioni, ma non ci fu niente da fare perché un’altra pallottola lo colpi e lo uccise tra le mie braccia…

Non ci fu il tempo di rendermi conto che un’altra pallottola ancora mi raggiunse e mi ferì la gamba destra. Scappai pieno di paura trascinandomi con la gamba ferita verso il Posto Feriti. Arrivai quasi dissanguato e con una sensazione di grande freddo; “Forza caporale, forza caporale” mi gridarono e mi medicarono. Poi mi portarono all’ospedale da campo ad Enego (provincia di Vicenza), dove il 22 notte mi operarono amputando la gamba ferita: era il giorno del mio 24 esimo compleanno.

Rimasi nell’ospedale da campo circa 40 giorni, dopo fui ricoverato all’ospedale di Verona.

Dopo 4 giorni fui operato una seconda volta mi tagliarono “attero batto poddighe” (quattro dita) di osso per cucirmi meglio il moncherino. All’ospedale di Verona vi rimasi un paio di mesi tra Agosto e Settembre del 1916. Da Verona andai a Roma all’ospedale Montebello per altri tre mesi e il 23 dicembre mi portarono al Quirinale, al palazzo reale.

La sera dello stesso giorno, insieme a molte altre persone la regina Elena ci consegno un regalo. Lei passava, noi le baciavamo la mano e ci consegnava una valigetta con tanti oggetti, persino un orologio. Sono stato al Quirinale continuativamente fino al mese di Giugno del 1917, ho frequentato la scuola, anche se sapevo un po’ leggere e scrivere, superai gli esami ottenendo Iattestato del corso elementare insieme alla medaglia di argento, andai a Bologna per circa un mese dove mi fecero la protesi, quindi ritornai al Quirinale.

Nel primo periodo di ricovero al Quirinale, la sig.na Campanella, una volontaria, voleva insegnarmi a medicarmi da solo, ma io non accettai perché era una donna. Andai allora nella sala medicazioni e aspettai il mio turno quando inaspettatamente si presentò davanti a me la Regina e mi chiese cosa stessi aspettando. Proprio in quel momento si presentò anche il maggiore medico, che alla vista della regina scattò immediatamente in un saluto. “Su, su”, disse la Regina, “fatemi medicare il caporale, avanti Lorettu, non abbiate nessuna vergogna, venite dentro” prosegui, “siamo tutti fatti di carne umana e tutti cristiani”.

Mi ha fatto accomodare sul banco della medicazione e mi medicò… Proprio la Regina in persona. E pensare che io non volevo farmi medicare da una donna…

Terminato il periodo al Quirinale venivamo inviati negli istituti per la rieducazione. Mi mandarono a Villa Mirafiori in Roma, istituto per imparare un mestiere (calzolaio, falegname, ortolano …) anche se continuavo a frequentare la scuola perché a me piaceva molto, incoraggiato anche dal professore Catia, che durante la consegna del diploma mi disse: “è un peccato che lei smetta di studiare”.

A quel tempo non si pensava a studiare. Si pensava solo a tornare a casa, in famiglia. Comunque prima di destinarmi a Villa Mirafiori mi sottoposero a visita medica per assegnarmi una pensione. Mi assegnarono la quarta categoria, una miseria di pensione, non accettai. Protestai perché non volevo accettare quella miseria, mi dissero che come tutti i sardi ero testardo. Risposi che per andare lassù in guerra a morire non eravamo testardi, e chiesi che mi facessero fare una nuova visita presso una struttura “superiore”. Mi mandarono, insieme ad un altro compagno, ma non ottenni alcun risultato, se non ribadire che quello che ci spettava era la quarta categoria. “Bisogna lavorare” ci disse il colonnello, “cosa credete che il governo vi faccia vivere cosi senza fare alcun lavoro.” “Vada lei a lavorare che ha mani e piedi”, risposi, “io con una gamba sola non ci posso andare e quindi mi deve dare una pensione che mi permetta di vivere”.

Ritornai al Quirinale e quindi a Villa Mirafiori senza avere la certezza di quale categoria mi avrebbero assegnato. Proseguii a studiare e presentai ancora un’altra domanda di pensione, questa volta mi assegnarono la seconda categoria, di più non si poteva fare. Rimasi a Roma sino al 1918. Rientrai finalmente a casa, ma poco tempo dopo, avendo la necessita di un altro “apparecchio” feci la domanda per sostituirmi la protesi e quindi tornai a Roma, era il 1919, non ricordo il mese. A Villa Mirafiori, mi fecero il foglio di via, di congedo, e tornai definitivamente al Alghero.

Tra militare, guerra e ospedali erano trascorsi quattro anni e quattro mesi. Durante la permanenza ad Alghero nel 1918, mi presi quella brutta malattia la “febbre spagnola”. Guarii dalla febbre spagnola e mi ammalai di malaria, che curai a Roma. Nuovamente nel 21 mi ammalai di polmonite doppia biapicale e malaria. Otto, nove mesi di malattia. Nel frattempo avevo fatto la domanda per fare la visita, sempre per la pensione, ma essendo ammalato non potevo presentarmi, quindi venne la commissione per visitarmi a casa. Era il 14 di febbraio del 1922.

Mi assegnarono la prima categoria; avevo gia la seconda per la gamba, e la sesta per la malattia; decisero di ufficializzare per la prima categoria. Firmai contento, ma dopo quattro mesi scoprii che avevano respinto la domanda; perché dovevo completare la pratica
con un’altra domanda. Questa è I’ignoranza. Mi sentivo sempre male e decisi di fare un altra domanda nel 1924 . Mi chiamarono a Cagliari per la visita. A Cagliari incontrai il colonnello che mi amputo la gamba ad Enego, Dott. Costa Agostino. Io non lo riconobbi, lui mi fece domande sul mio stato di salute e alla fine mi chiese se l’avessi riconosciuto. “Signor no”, risposi. Allora svelò di essere stato lui ad amputarmi la gamba.

Lo ringraziai chiamandolo Padre Salvatore. Rivolgendosi agli altri medici disse che il mio era un caso disperato però riusci a salvarmi la vita, per altri due nelle mie stesse condizioni invece non fu possibile. Mi fece una bella visita e mi assegnarono la seconda categoria, ma non ci fu niente da fare per avere la prima categoria perché riconobbero che la “malattia” non venne per cause di servizio, lo attestava anche un documento del ministero giunto da Roma (domanda respinta per la prima categoria).

Rientrai a casa comunque contento perché la pensione aumentò essendo passata dalla quarta alla seconda categoria. Avevo la licenza per gestire la Trattoria gia dal Maggio del 1922 sino al 1933. Venduta la licenza comprammo la casa, e mi sono messo a vendere carbone. Il primo figlio nacque a novembre sempre del 1919 , pochi mesi di vita, si chiamava Anton Angelo. Dopo quattro anni, il 16 febbraio del 1923, è nata Lucia nel sottano di Michela Deiana in via Minerva di fronte alla casa di “Cucciu Maccu”. Non mi ricordo se anche Giovannina è nata in quella casa, abitammo lì dal ’22 al ’25. Mentre Antonino nacque il 2 dicembre del 1928”.

Ringraziamenti di storiedialghero all'associazione A.D.O.D.S per il prezioso contributo
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