Canto del bogamarì

Il canto del bogamarì

Testo di Salvatore Pinna versi di Giacomo Cavallo

Elegia piscatoria.


Spira la Musa e cantar mi fa qui
L’antico canto del bogamarì.
Ammetterete che sono coraggioso
A cantar argomento sì spinoso.

Sarò breve: comincerò dai Doria
Che vennero assetati di vittoria

Ed assaggiato il buon bogamarì,
Dissero in coro: “ Ci fermiamo qui”.

Paracentrotus lividus s’appella
Quel che chiamiam bogamarì femella

E’ l’unico buon, questo diciamocelo
Niente a vedere con l’arbacia lixula

Che non è mascra ma un’ermafrodita:
Son fatti suoi, ma a  mangiar non m’invita.
Cantami o Diva lu bò e poi l’aspina,
L’ascolgia (ahimé!) e  la bocca piccolina.

**

Da lungo son passati i tempi in cui
Giovine pescator  di ricci fui.

Si partiva col ciu, piatta barchetta
Si pescava con  canna e con  raspetta,

Un ferro curvo.  E non era mal
Portarsi appresso pure un bel miral.

Erano in pratica solo i  bocconi
A prender quei di gangaru, men buoni:

Troppo dolci d’estate. Ma  ti getti
Ad acchiappar bogamarì violetti

Che di color corallo hanno il loro bò
E far di meglio proprio non si può.

Avea ogni pescator in quei bei dì
Un posto scelto pei  suoi bogamarì.

Il pescator provetto si apposta
Da Curroga alla  Grutta de Costa.

Ma  tu  i miglior bogamarì t’aspetta
Trovar intorno alla Maddalenetta

Nutriti dallo stagno, ov’è in azione
Adesso l’immonda eutrofizzazione

Cui l’Algherese quando vuol poetare
Di “Melda groga” il nome suole dare.

Ottimi anche i ricci del Valmel,
E quei che peschi della muraglia al ciel,

E il bogamarì de furat ti  aspetta
Sol dalla piana davanti all’Uglietta.

Terribili son quelli di Port Agra
Che d’elba curallina han dieta magra.

Cercali  dopo una mareggiata:
Vuoti li trovi, è fatica sprecata.

**

Cantami o Diva che le pene togli
Le secche di gennaio e pur gli scogli

Quando era il tempo de pusà an bocca
Bogamarì, con pirizzolu e cocca.

Con la pietra o coltello s’aprivano,
E sol le donne la forbice usavano.

Se il riccio avea male digerito
Gli avanzi tu toglievi con un dito

Sciacquavi in acqua il tuo bogamarì
E poi te lo pappavi lì per lì.

Usare il cucchiaino era proibito
Solo un pezzo di coc oppure il dito.

E filosofica luce potevi
Gettar intorno se tu ti mettevi

La Lanterna d’Aristotile a ciucciare
Che sul vero illumina sapor  di  mare.

I resti  in acqua si buttavano
E i pesciolini a mangiare accorrevano

C’era l’attaccascol  detto prattielle
Che per le botte avea visto le stelle

A certe nozze che avvennero a Napoli:
Ci andò il prattielle con i pesci scapoli.

Della  vavosa il consiglio quel giorno:
Fu “Anema e core e faccia de cuorno”.

Gli spaghetti coi ricci, ignoto orror
Eran per noi innominati ancor,

Ed or li mangi nei peggiori ristoranti
A Ferragosto, Pasqua e Tutti i Santi,

Tratti da un barattolino congelato
Ed il sapore di mare se n’è andato,

Ma posso suggerir senza pretese
Di ricci delicata maionese.

E se un  sushi tu vuoi fare sopraffino,
Immergeli nell’amido un pochino.

Mai  il mio nome vorrei  associare
A un tal  libro  di ricette di mare

Che nel dare all’incolto la ricetta
Che “riccio alla zingara” vien detta

Bogamarì ed arittu confonde,
L’un vive in terra, e l’altro fra le onde.

Bogamarì, di te nulla si getta:
A Cuba per pescar la palometta

Sei usato com’esca tutt’intero
E non strilli neppur: sei troppo fiero.

E l’ultigara, l’anemone di mare,
In metà ascolgia  si può cucinare.

**

Tutti vogliam che conservata sia
Natura. Allor da villa Sant’Elia

Fin al porto sia la pesca proibita.
Indi sia la marina ripartita

In cinque zone. Regolate vanno:
A turno  a riposo cinque anni.

Ma tu, diva, a che non ti sdegni? Offesi
Sono nei lor  sacri diritti gli Algheresi.

La pesca dei ricci a cinquanta  ristretta
(anziché usar sol canna e raspetta?),

E si limita pur, mai visto prima,
Che si raccolga la paglia marina.

Di giustizia insiem lo spirto è morto
Al libero parcheggio in aeroporto.

E ancor non basta: più non si permette
Il fanol di utilizzar delle cunette

Né  le lumache ché il diserbante
L’ Anas copiosamente incauta spande.

Con transenne decretato han pur la fine
Dello scender al mar dalle scaline,

E non c’è più chi a Valverde vada
In passeggiata sulla bianca strada.

Invece, con buon senso che non erra,
Son tollerate le cicche per terra,

E i chewing gum ed altre schifezze
Seppur da trattar come immondezze.

**

Belli quei giorni, quando col tallone
Calpestavamo i ricci con passione

Sperando che c’entrasser delle spine.
Era dover di ragazze carine

Stringer i nostri tallon tra i vaghi
Femori  lor ed estirpar con aghi

Quelle spine, che vere galeotte
D’amore c’iniziavano alle lotte.

Le stesse  spine molto si temevano
Se ai giunti delle dita s’infilavano

(qui pece o aghi). Ci dicean infine
Che non si trova rosa senza spine.

Ma dai ricci mangiati tu poi aspetta
Una sottile immancabile vendetta

Un venticello che non si può tenere
Puzzolentissimo esce dal sedere.

Uniti a caragol e tuffella il risultato
E’ che sei a restar solo condannato.

Con un consiglio voglio terminare.
Se questa crisi tu vuoi superare,

Devi tenere nella tua casacca
Ben stretto “lu bogamarì an buciacca”,

Che t’impedisce di sperperar denaro
Obbligandoti ad essere un po’ avaro.

Ma la mia musa ormai sembra assopita
E la mia canzon è proprio qui finita.


 

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