di Salvatore Pinna
Che dire della mitica balduffura, la trottola, giocattolo molto apprezzato nella nostra infanzia di ormai quasi settanta anni fa.
E’ un giocattolo noto in tutto il mondo, dall’inglese topspin alla francese toupie, dal portoghese piao, allo spagnolo peonza o trompo alla giapponese koma e chi più ne ha più ne metta. Per i catalani baldufa, burot o trompada. Le più grosse sono quelle malesi, con le quali si fanno gare di durata.
Ma torniamo alla nostra trottola algherese, il cui gioco è stato magistralmente descritto dallo Scala nel suo libro Mignonias.
E’ composta di tre parti come la Gallia di Cesare: la scarina, la curunetta i lu crau. Viveva una vita solo a volte separata la culdetta, possibilmente di buon burantinu ben domato che spesso si rivelava troppo rigido ed era sostituito da normale spago da pacchi. Alla fine dello spago era praticato un nodo con aggiunta facoltativa della componente in gomma dei tappi di certe bibite.
La trottola era prima di tutto ben “acculdagliara” e poi si procedeva al lancio sostanzialmente in due modi “di bulciarura” o “de sottabras” e “de cop”.
Nel primo si lanciava la trottola parallela all’anca per poi imprimere una giravolta prima di lasciarla andare, Il lancio de cop era più difficile: si scagliava la trottola verso terra dopo aver alzato il braccio e sempre dando un opportuno strappo finale.
Solo dopo il primo lancio si poteva vedere il vero carattere della trottola: sirinedda, trunosa o saltadora.
Per farla più sirina si toglieva ill chiodo e si metteva sterco di cavallo o piume di piccione.
Il gioco che ricordo presenta delle varianti rispetto a quello classico del a parament apara del testo dello Scala.
Si scavava una piccola buchetta sul terreno, la pola, (cosa ormai impossibile se non si va in campagna) nella quale bisognava spingere la trottola dell’avversario. A tale scopo si lanciava la trottola, si raccoglieva sul palmo della mano e la si faceva battere su quella dell’avversario spingendola verso la pola. La prima trottola che cadeva nella buca accuzzava e doveva mettere sotto ed il vincitore poteva provare a spaccarla. Alcuni avevano di riserva per tale scopo una trottola con il terribile “crau de pinta”, la macchina che trasformava le palme in crine vegetale. Come contromossa i più fortunati mettevano sotto un “cagagliò” ricavato dalla radice degli olivastri. Piccolo e affusolato era difficile da colpire, specie se unto di grasso, ed un chiodo normale scivolava senza fare comò, comodini, gualdarobas o canongias. Spesso i più “bisestri” si facevano male alle nocche delle dita!
Il colpo non doveva toccare la scarina o la curunetta, nel qual caso si accuzzava e occorreva mettere sotto.
Se si riusciva a conficcare il chiodo nella trottola avversaria si poteva batterla a terra sino a spaccarla!
Alcuni lanciavano la trottola abilmente in alto facendola cadere in mano girando perfettamente!
Ricordo un anziano signore che fermò la bicicletta in Piazza Sulis quando ci vide tentare maldestramente di far girare una trottola. Aveva due mollette che gli tenevano fermi gli orli dei pantaloni ed una sporta di palma protetta da un panno accuratamente cucito sulla parte che sbatteva sul manubrio. Chiese timidamente di poter provare e si esibì in numeri da circo, raccogliendola da terra prima sul palmo della mano e poi facendola ballare su un’unghia, oltre a lanciarla in vari modi centrando qualsiasi bersaglio! Rimanemmo a bocca aperta!
I più piccoli prima di passare alla trottola studiavano, statica, dinamica ed equilibri dei movimenti di rotazione con il “ballarì”, ottenuta spaccando a metà una ghianda ed infilando uno stecchino. I più ricercati erano i “ballarins” fatti con le tiribozze, le ghiande più grosse.
Adesso ci sono trottole che sfruttando il campo magnetico girano in aria!
Considerazione finale: le trottole sono come le persone: prima occorre dare spago e poi frustarle perché continuino a girare a nostro piacimento, pratica sconosciuta ai ragazzi algheresi dal gentile cuore, solo interessati a spaccare quelle dei compagni.